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viernes, 30 de diciembre de 2011

Why corks are popping once more

Why corks are popping once more

Cork-makers are feeling buoyant as the wine industry turns away from screw-top bottles and back to traditional corks
Corks are on the way back
Corks are on the way back, as 70% of winemakers favour them over screw-tops or plastic stoppers. Photograph: Andrew Mccaul/Getty Images
Forget screw-caps, the old-fashioned cork is making a comeback. This week, as the wine industry gathers at Vinexpo, the world's biggest wine fair in Bordeaux, traditional cork-makers are feeling buoyant.
"Today, 70% of winemakers have chosen cork over screw-caps or plastic wine stoppers," says Carlos de Jesus, head of communication at Amorim, the world's biggest cork producer.
So why the sudden comeback? Are consumers increasingly associating screw-caps with cheap wine? Not according to Valérie Hamon, of the wine retailer Nicolas. Light summer wines are still preferred in screw-cap bottles and, she argues, "cork doesn't always mean quality".
Nonetheless, winemakers from South Africa to California are making the switch back from screw-caps to cork. Proof, according to De Jesus, that cork is back and here to stay.

Origin information: The Guardian

jueves, 29 de diciembre de 2011

Il business dei furbetti dell’olio così l’extravergine taroccato arriva sulle nostre tavole

Il business dei furbetti dell’olio così l’extravergine taroccato arriva sulle nostre tavole

23.12.2011

I SIGNORI dell’olio si sono inventati una secondo genitura. Non spremono più: trasformano. A modo loro. Trasformano, manipolano, deodorano, profumano. Soprattutto, importano. Comprano a mani basse all’estero e rivendono in Italia, e poi via, di nuovo fuori. Se la tirano da gran produttori del made in Italy, da fuoriclasse dell’oro giallo più buono al mondo. E intanto ci rifilano il pacco, e noi lo beviamo. Olio extravergine d’oliva? E come no: però spagnolo, tunisino, greco, marocchino. Un flusso ininterrotto di miscele di oli "comunitari" e "non comunitari" viaggia ogni giorno verso l’Italia, da Sud a Nord, a bordo di tir e navi cisterna, lungo le rotte dei fuarbetti del frantoio. Sono centinaia di migliaia di tonnellate di oli low cost prodotti nel bacino del Mediterraneo, roba che viene reimbottigliata nelle nostre aziende, dove acquista una nuova, falsa identità. Alla fine, di italiano garantito, c’è solo il marchio (pazienza se i più grossi nomi sono finiti in mano agli spagnoli). Anzi, i marchi. Nelle tasche dei padroni dell’olio entrano 5 miliardi di euro l’anno. Sulle nostre tavole, un bluff. Chi sono i nuovi ras delle olive taroccate? Come funziona il loro business? IL CARTELLO DI ETICHETTE Ci sono una decina di etichette — un paio molto note — che in questa Seconda Repubblica dell’olio hanno formato un cartello: un blocco di imprese — produttori e distributori — alleate nel nome della speculazione fondata su una raffinata frode commerciale, sull’inganno subdolo del consumatore, su un modo di operare che è diventato "sistema" e che sta accumulando profitti patrimoniali enormi. Sono attive per lo più tra Centro e Sud Italia. Importano enormi quantità di olio dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Tunisia. In alcuni casi lo acquistano da società alle quali risultano collegate: stesso gruppo, stesso padrone, un’unica famiglia. Se comprano uno o se comprano cento, il prezzo è sempre lo stesso. Controllano i prezzi, controllano il mercato. Un tempo in queste rinomate aziende italiane si spremevano olive: oggi ci sono solo dei silos. Cisterne che attraverso le idrovore mungono olio dai tir che lo trasportano fin qui dagli uliveti dell’Andalusia o dalle sconfinate coltivazioni tunisine. E poi? Una bella etichetta italiana e via: l’extravergine italiano taroccato atterra sugli scaffali dei supermercati. A rivelarlo è un’indagine, ancora in corso — ma che Repubblica è in grado di anticipare — condotta dall’Agenzia delle Dogane, dai detective del settore frodi del Corpo Forestale dello Stato e della Guardia di Finanza, in collaborazione con Coldiretti. Non è la classica attività investigativa che porta alla scoperta di prodotti malconservati o scaduti. È un’esplorazione più tecnica, portata avanti con l’analisi incrociata di banche dati europee e accertamenti fiscali da una parte e controlli sul territorio dall’altra. Una lente di ingrandimento posata sulla filiera dell’olio "mascherato". Permette di capire parecchie cose: per esempio perché quattro bottiglie di olio extravergine su cinque battono ufficialmente bandiera italiana ma contengono prodotti stranieri (provenienti soprattutto da Spagna e Grecia). Prodotti, oltretutto, nascosti dietro etichette praticamente illeggibili. O perché quattro chili d’olio su dieci in vendita nei supermercati sanno di muffa (studio Unaprol, Coldiretti e Symbola). E ancora: come mai, a fronte delle 250mila tonnellate di olio che esportiamo, ne importiamo 470mila (nel 2010 sono state 100mila in più): dove vanno? Come vengono miscelate? A quanto le rivendono? «È qui che i signori dell’olio giocano la loro partita sleale — spiega Stefano Masini, responsabile consumi della Coldiretti — . C’è un gruppo di potere agroalimentare che sull’importazione e sull’assenza di tracciabilità delle "miscele" sta facendo fortune illegali. Così come per i rifiuti si parla di ecomafia, è arrivato il momento, anche per l’olio, di parlare di agromafia. Bisogna iniziare ad aggredire i patrimoni». I capoccia dell’olio si sono evoluti. Non solo hanno individuato nuovi canali di approvvigionamento per la materia prima (che poi è anche l’ultima). Hanno pure capito come farla rendere al massimo. Nella relazione delle Dogane si ricostruisce, tonnellata per tonnellata, un sofisticato sistema di import-export: una ragnatela europea fatta di incastri societari e ordinazioni milionarie, «flussi in entrata» e «flussi in uscita», importazioni «definitive» e «temporanee». Il tutto condito da anomalie fiscali, fatture gonfiate, proficui scambi intra e extra comunitari. Repubblica, per non pregiudicare l’esito delle indagini, per ora tiene coperti i nomi delle aziende finite nel mirino degli investigatori. Raccontiamo come funziona il meccanismo. I TRUCCHI DELLE TRASFORMAZIONI C’è questa parolina magica — «trasformazione » — di cui si è esteso il significato. In modo strumentale. Un tempo per trasformazione si intendeva la frangitura, la molitura: insomma il passaggio dall’oliva al suo nettare. Oggi se i boss internazionali dell’olio dicono che trasformano, può significare che ce la stanno facendo sotto il naso. Fanno incetta di olio spagnolo e tunisino. Lo pagano meno di 25 centesimi al chilo. In Italia lo miscelano, anzi, lo trasformano, — che è un termine più igienico, anche rassicurante. A volte la trasformazione è semplicemente l’imbottigliamento. In altri casi prevede degli innesti. Magari minimi. O il processo di deodorazione: si interviene con il vapore per eliminare i difetti (morchia, rancido, muffa, riscaldo, lubrificanti). Chiamiamoli pure trucchi. In apparenza non lasciano traccia. C’è un motivo. In base al regolamento comunitario 182 del 6 marzo 2009, indicare la provenienza delle miscele («di diversa origine») impiegate sarebbe obbligatorio. In realtà, su nove bottiglie su dieci le scritte che dovrebbero essere riportate — «miscele di oli di oliva comunitari », «miscele di oli d’oliva non comunitari », «miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari » — sono illeggibili. I caratteri sono talmente piccoli, e stampati in posizioni quasi nascoste, che per scorgerli bisognerebbe avere un microscopio. È uno dei paraventi su cui marciano i trafficoni. «L’ex ministro delle Politiche agricole Saverio Romano quattro mesi fa aveva annunciato con grande enfasi un decreto che fissando delle dimensioni minime rendesse più leggibili queste etichette — ragiona Sergio Marini, presidente di Coldiretti — . Che fine ha fatto il decreto? Si è perso?». Una volta etichettato l’olio straniero, i furbi distributori italiani lo piazzano a prezzi ribassati: nei discount, negli autogrill con le superofferte turistiche, nella grande distribuzione. Un euro e 80, due euro. Tre, quattro, al massimo. Un bel ricarico se si considerano i 23 o 25 centesimi del prezzo di acquisto. Fumo negli occhi del consumatore se si pensa che sull’etichetta spicca sempre, quella sì, bene in vista, la scritta olio extravergine d’oliva. Italiano. «L’olio, rispetto ad altre produzioni agroalimentari, per esempio il vino, è un prodotto straordinariamente semplice — dice Amedeo De Franceschi, vice comandante dei Nafs della Forestale — . Vent’anni fa l’attività dei produttori era regolata da una legge europea che diceva: l’extravergine d’oliva è un prodotto ottenuto solo dalla spremitura meccanica delle olive. Oggi è cambiato tutto. L’olio d’oliva è sparito. E l’extravergine è diventato una giungla. Risultato: le aziende non spremono più niente: mettono in cascina olio che viene da fuori, da lontano, coi tir. La gente lo compra e non sa che è un inganno. Perché, dall’etichetta, non si riesce a capire che cosa c’è nella bottiglia ». Ma che cosa c’è nell’olio che compriamo? Quali fregature ci propinano i maneggioni degli ulivi? L’INGANNO DIETRO LE OFFERTE Prendiamo l’olio made in Spain spacciato per extravergine italiano. Al supermercato il primo prezzo è 3 euro. Ma dietro la convenienza, ecco la sorpresina. Non solo non è extravergine, ma è anche di pessima qualità. «C’è pieno di oli di oliva difettati venduti come extravergine — dice Massimo Gargano, presidente di Unaprol — . Sono oli che meritano di essere declassati, altro che made in Italy». La prima indagine nazionale sulla qualità dell’olio d’oliva in vendita nei supermercati italiani ha dato esiti disastrosi. Su dodici campioni (delle marche più vendute) prelevati dagli scaffali e analizzati in laboratorio, quasi la metà sapeva di muffa. Le analisi organolettiche hanno evidenziato difetti gravi come il rancido e il riscaldo. «Un olio per poter essere considerato extravergine deve essere privo di difetti organolettici». Figuriamoci. Ma dove vengono prodotte le miscele straniere imbottigliate dagli imprenditori italiani dell’olio? Perché queste terre, sfruttate da importatori scaltri, hanno dopato il mercato? LE TERRE DEI FURBETTI C’erano una volta la Puglia, la Calabria, la Sicilia, la Campania. Le prime due insieme producono il 66% del nostro olio. La Toscana solo il 3%. Per capire come mai, geograficamente, e nel core business degli imprenditori, le regioni italiane sono state soppiantate da terre lontane, bisogna allungarsi nel Sud della Spagna: il primo paese europeo produttore di olio (nel 2010 ce ne ha dato 426milioni di chili). Jaén è una cittadina dell’Andalusia. A nord di Granada, confina con la Castiglia-La Mancha. La sua provincia è un’oliva gigantesca. Se si scende a Sud fino a Malaga e a Nord fino a Madrid si possono osservare 400 chilometri di uliveto ininterrotto. Coltivazioni intensive. Un chilo d’olio — ottima qualità — costa 50 centesimi. Gli importatori italiani lo rivendono a cinque volte tanto. Ora andiamo in Tunisia. Stiamo parlando del primo produttore di olio d’oliva di tutta l’Africa e del secondo paese del mondo per superficie coltivata. Per produrre un chilo di olio qui bastano 10 centesimi. In Italia, a seconda dei frantoi (6mila), ci vogliono 4-5 euro (7 al centro nord, 3,53 in Puglia, 3,64 in Calabria). Sul mercato africano all’importatore l’olio costa dai 20 ai 23 centesimi. Le navi in partenza per i porti di Gioia Tauro, di Livorno, di Genova, non aspettano altro che riempirne le cisterne e portarlo da noi. La stessa cosa accade sull’Adriatico, con i cargo boat che salpano dalla Grecia diretti a Ancona carichi di derrate. Dove finisce l’olio che arriva dal bacino del Mediterraneo e dal Peloponneso? E in che percentuali arriva? LE ROTTE DELL’OLIO Secondo il rapporto 2010 Coldiretti/Eurispes sulle agromafie, il 93,1% del vergine e dell’extravergine importato dai paesi extracomunitari viene dalla Tunisia. Quando entra in Italia inonda la provincia di Pavia (33,3%), di Lucca (19,1%) e di Genova (10,1%). Tra Toscana e Liguria c’è un’alta concentrazione di aziende olivicole (a Firenze due dirigenti e un funzionario della Carapelli sono sotto inchiesta per una sospetta frode alimentare). Idem nel pavese. Poi si scende: Perugia, Roma, Firenze. Fino in Puglia: Bari, Lecce, Taranto. Un mese fa proprio nella città dei due mari la Guardia di finanza ha arrestato due imprenditori baresi: stavano spedendo in Giappone e a Taiwan 50mila litri di olio taroccato nelle loro aziende. L’etichetta sugli imballaggi e sulle bottiglie — orgogliosamente italian sounding — copriva in realtà un fiume di oli con miscele straniere. Laboratorio Puglia. La terra degli ulivi. Olio straordinario, unico. Ma anche terra di imbrogli. Fu scoperta qui, nel 2008, una delle truffe più grosse degli ultimi anni. Duemila trecento tonnellate di olio proveniente dall’estero sequestrate. Controlli su 250 operatori. Venti aziende coinvolte in tutta Italia. La cabina di regia del finto olio extravergine italiano al 100% — con interi scatoloni di documenti falsi — era una azienda di Andria (la Basile snc). L’olio arrivava dai soliti serbatoi: Spagna, Grecia, Tunisia. Acquistato come extravergine, miscelato con olio locale, e infine rivenduto come «prodotto italiano al 100%», non solo in Italia ma anche all’estero. In parte veniva spacciato anche come «biologico». «È ora che il governo colpisca l’agromafia con nuovi strumenti — conclude Stefano Masini di Coldiretti — . Bisogna indagare come si fa con il 416 bis. Queste non sono semplici frodi in commercio, sono organizzazioni criminali strutturate che controllano i prezzi e tengono in mano un’intera filiera. È la mafia dell’olio».Origine informazione: La Reppublica

El 80% del aceite que vende Italia es de España, Grecia y Túnez.

El 80% del aceite que vende Italia es de España, Grecia y Túnez.
Desembre del 2011
  
Redacción - LA VANGUARDIA - 24 de
diciembre de 2011.
  
Cuatro de cada cinco botellas de aceite de
oliva que Italia comercializa provienen de
fuera del país transalpino. En concreto, de
países como España, Grecia, Túnez y
Marruecos, según informaba ayer el diario
italiano La Repubblica.El problema es que
luego algunas las venden como si fuera
aceite con denominación de origen italiana.
En tono irónico, el reportaje del diario
italiano arrancaba con un par de frases
imperdibles: "Los señores del aceite se han
inventado un segundo génesis: ya no
exprimirán más aceite; ahora sólo lo
transformarán". Y es que el reportaje del
periódico italiano aclara que el negocio es
un fraude: compran fuera a precio más bajo
que en Italia, embotellan en el propio país
y lo revenden fuera, y en el propio país,
como aceite made in Italy mediante
empresas con una falsa identidad. Según
continúa el diario, son unas diez empresas
que forman un especie de cártel y que
están basadas en el engaño de vender este
aceite con denominación de origen italiana.
El diario explicaba que Italia importa del
conjunto de España, Grecia y Túnez unas
470.000 toneladas de aceite, mientras que
exporta unas 250.000 toneladas. El resto se
queda en el país transalpino, que
supuestamente también consume este
aceite fraudulento. Hay que recordar que
Italia es el país líder en exportación de
aceite de oliva en todo el mundo.

El 80% del aceite que vende Italia es de España, Grecia y Túnez.

24 de diciembre de 2011.

Cuatro de cada cinco botellas de aceite de oliva que Italia comercializa provienen de
fuera del país transalpino. En concreto, de países como España, Grecia, Túnez y
Marruecos, según informaba ayer el diario italiano La Repubblica.El problema es que
luego algunas las venden como si fuera aceite con denominación de origen italiana.
En tono irónico, el reportaje del diario italiano arrancaba con un par de frases
imperdibles: "Los señores del aceite se han inventado un segundo génesis: ya no
exprimirán más aceite; ahora sólo lo transformarán". Y es que el reportaje del
periódico italiano aclara que el negocio es un fraude: compran fuera a precio más bajo
que en Italia, embotellan en el propio país y lo revenden fuera, y en el propio país,
como aceite made in Italy mediante empresas con una falsa identidad. Según
continúa el diario, son unas diez empresas que forman un especie de cártel y que
están basadas en el engaño de vender este aceite con denominación de origen italiana.
El diario explicaba que Italia importa del conjunto de España, Grecia y Túnez unas
470.000 toneladas de aceite, mientras que exporta unas 250.000 toneladas. El resto se
queda en el país transalpino, que supuestamente también consume este
aceite fraudulento. Hay que recordar que Italia es el país líder en exportación de
aceite de oliva en todo el mundo.

Origen información: La Vanguardia

miércoles, 28 de diciembre de 2011

Al pan, pan

Al pan, pan

Estoy dispuesto a soportar esas pijadas si eso hace que en muchos más lugares haya pan de verdad

Artículos | 03/12/2011 - 00:00h

Quim Monzó
El otro día leí, en el blog de cocina de Rossella Cascone, la historia del horno que un día encontró escondido en su casa, en Pompeya: "En el garaje que custodiaba la bicicleta de mi abuelo descubrí un agujero, tapado con piedras. Le pregunté y mi abuela me desveló su secreto. Durante la guerra había sido un horno que todos los vecinos utilizaban para cocer su propio pan. Una vez a la semana –todos juntos, ya que encender sólo una vez les permitía ahorrar madera– depositaban allí sus perfumadas masas fermentadas que abastecerían a cada familia. Eran tiempos de pobreza, la guerra azotaba fuerte...". Cascone narra cómo, aunque aparentemente ahora hayan cambiado las cosas, comemos también poco pan de verdad, y que el poco que comemos tiene precios exorbitantes. Elegantemente, alude a una moderna panadería barcelonesa –con Reykjavik en el nombre– donde el pan sale a 7 euros el kilo. Acaba el post con su receta para hacer en casa un pan espléndido, a años luz de los pálidos zurullos precocidos que encuentras en muchos lugares que exhiben impunemente el letrero de panadería.

Luego, el miércoles leí en las páginas asalmonadas de este diario el reportaje de Mariángel Alcázar sobre las nuevas panaderías de Barcelona: el Turris, L'Obrador del Molí, el Baluard... Y ahora me encuentro con una noticia de la ACN que explica que en Girona acaban de presentar un nuevo pan: el "pan de la tramontana". ¿Qué tiene que ver el viento del norte con el pan? Pues el marketing. Se trata de un pan hecho con harinas de dos tipos de trigos patriarcales cultivados ahora en los Aiguamolls de l'Empordà, "donde la semilla crece rodeada de la tramontana y la salobridad del mar". El presidente del Gremi de Flequers Artesans de la provincia dice que "la miga tiene un toque ácido y de avellana tostada y, al morderlo, la corteza hace ruido de fuegos artificiales". Fuegos artificiales aparte, cada pieza es de 400 gramos, lleva una etiqueta de pan de ángel en la corteza y va dentro de una bolsa numerada.

A mí, francamente, todo ese lirismo del trigo que crece rodeado por la tramontana y la salobridad del mar más bien me repugna, tanto como el exotismo impostado de esa panadería moderna del Barri Xino que invoca a Islandia en su nombre. Pero estoy dispuesto a soportar todas esas pijadas si eso hace que en muchos más lugares haya pan de verdad y no zurullos precocinados. Sólo les pido que no exageren. Que nadie olvide que siempre ha habido buen pan en muchos pueblos y ciudades de Catalunya, Barcelona incluida. Siempre. Yo nunca he dejado de comer pan de primera. Pero eso requiere un esfuerzo: el de descubrir qué panaderías son buenas y cuáles nefastas. A veces pienso que todos esos a los que ahora les cae la baba con las "nuevas panaderías" deben haberse pasado la vida comprando el pan en gasolineras y, de repente, han descubierto el Mediterráneo y flipan.

Origen información: La Vanguardia

viernes, 23 de diciembre de 2011

Bull shifts: Modo in Beijing switches to all-Spain wine lineup

Bull shifts: Modo in Beijing switches to all-Spain wine lineup

Posted on | December 19, 2011 |
rmb9 per sample (pjwine.com)

By Jim Boyce
Beijing restaurant Modo has taken the bull by the horns and stuck an all-Spanish lineup into its two enomatic machines. Modo will rotate about 50 wines through the 16 slots over the next few months. To the best of my knowledge, this Sanlitun-based restaurant was the first to use cash card-based machines.
I joined a group of samplers on Saturday night and tried about half of the wines. I liked the Emilio Moro Finca Resalso 2009, a medium-bodied slightly spicy wine with funky aromas and a ghetto edge — rmb9, rmb28 and rmb55 for 25ml, 75ml and 150ml pours respectively. Several people liked the Bernabe Navarro Casa Balaguer Alicante 2007 (too fragrant for me) and the Pagos del Moncayo Syrah 2009 (rmb15 / 50 / 95; nice body). Cedar fans might try the Pagos de Moncayo Grenache-Syrah 2010 (12 / 35 / 68).
(On the other hand, one wine — I can’t remember which — had lots of youthful fruit that was quickly overwhelmed by the tannins. It was like seeing a group of toddlers gaily playing in a sandbox and being in the way of a runaway dump truck. Someone stop that truck!)
Modo offers a daily discount of 20 percent discount daily from 6 PM to 8 PM.

Origin information: Grape Wall of China

jueves, 22 de diciembre de 2011

¿Vino de gourmets por 1,5 euros?

¿Vino de gourmets por 1,5 euros?


La guía de parker dio 90 puntos a un blanco básico y luego se aclaró que el vino examinado no era rúa 2010
C.L. - Miércoles, 21 de Diciembre de 2011 -
Vitoria. Un vino blanco genérico de A Rúa, cuyo precio es de 1,5 euros en los supermercados, accedió, al parecer de forma errónea, a la élite enológica mundial de la mano de lista de Robert Parker. El destituido catador Jay Miller se cubrió de gloria después de aupar a un vino usado habitualmente para cocinar, elaborado por la Cooperativa Virgen de las Viñas, de Ourense, a la nobleza vitivinícola. "Luego se supo que era un vino de la misma bodega pero no era el que aquí se comercializaba tan barato", aclara el enólogo y sumiller, Mikel Garaizabal.
El vino blanco gallego de Valdeorras denominado Rúa 2010 fue la gran sorpresa de ese año en la guía de Robert Parker, con una puntuación de 90. El efecto Parker no se hizo esperar y surgieron pedidos de Rúa de todo el mundo, agotando en poco tiempo las existencias. Los críticos no entendían, sin embargo, como ese blanco bastante modesto, -confeccionado con un alto porcentaje de uva Palomino-, había subido tan alto en el escalafón. Pero definitivamente el tema se complicó cuando el responsable de la empresa que exporta el producto a Estados Unidos señaló que, en realidad, la bebida enviada al señor Parker no era exactamente el vino que distribuye esa cooperativa. No era la primera vez, sin embargo, que Miller metía la pata. Ya planeaba sobre él la sombra de la duda con un vino mediocre de Jumilla que recibió también una alta nota en TWA.

Origen información: Noticiasdealava.com

miércoles, 14 de diciembre de 2011

En Baltimore repercute el escándalo del Campo-Gate

En Baltimore repercute el escándalo del Campo-Gate


Luego que apareciera en el sitio de The Wine Advocate en el día de la fecha, una firme declaración de RP reiterando la defensa de su enviado Jay Miller, a España y también repetiendo la contratación de un estudio de abogado para que investigue si fué vulnerado su código de ética respecto a la publicación que dirige, el diario
Baltimore Sun pone en boca de Robert Parker, palabras de agradecimientos para su ahora ex empleado. De la lectura de este suelto pareciera quedar clara la intención del crítico de dar batalla en defensa de su nombre y trayectoria. Se interpretan estas declaraciones como una respuesta al comunicado emitido el viernes por The Wine Academy of Spain, la empresa de Pancho Campo. Al mismo tiempo que Parker anuncia la puesta en marcha de una investigación a fondo - como detalla el diario - a cargo del estudio de abogados Cozen O'Connor "para determinar si nuestra estricta política de independencia en la revisión y degustación de vinos para su publicación en The Wine Advocate o publicar en eRobertparker.com se ha visto comprometida". despide a su ex colaborador con agradecimientos por su trabajo en TWA y le desea un exitoso desempeño en sus futuras ocupaciones. En tanto Jim Budd, el escritor de vino que puso en el tapete los correos con el presunto pedido de dinero para una visita de Jay Miller, publica también las declaraciones de ayer lunes 12 de Robert Parker, pero opina que la investigación ordenada por el crítico no debe circunscribirse a Murcia, sino que también debe analizarse toda la campaña de visitas de Miller-Campo a las bodegas de España.

lunes, 5 de diciembre de 2011

Jay Miller deixa The Wine Advocate

Jay Miller deixa The Wine Advocate

Després de la polèmica per les seves visites a diferents regions vinícoles i cellers amb Pancho Campo
Robert Parker ha anunciat que Jay Miller deixarà d'escriure a The Wine Advocate. L'anunci arriba després de les crítiques pels suposats cobraments que Miller hauria fet per les seves visites a diferents regions vinícoles amb Pancho Campo. Miller torna a la seva activitat de consultoria i comerç, i el crític Neal Martin s'ocuparà a partir d'ara dels vins espanyols, argentins i xilens a la publicació de Parker. Miller ha volgut desvincular la seva sortida de la polèmica, negant les acusacions: "Marxo de The Wine Advocate amb la consciència molt neta, mai he acceptat (o sol · licitat) pagaments per visitar regions vitivinícoles i cellers"

Origen informació: Cupatges.cat