Puntos de venta por ciudades, provincia, autonomía, países,...

Una gran arma de marketing que genera clientes de confianza y marca de empresa

Distribuidor / Tienda, demande a su proveedor de alimentos o vinos que le apoye mediante mapas de puntos de venta . Su uso

Distributor / Shop, ask your food or wine supplier to support you through point-of-sale maps . Using it

Distribuïdor / Botiga, demani al seu proveïdor d'aliments o vins que li doni suport mitjançant mapes de punts de venda . Fer-ne us

We export wines and food from Spain. Demand it to winesinform@gmail.com

Puede pedir vinos y alimentos de España a winesinform@gmail.com

On the work of buyer . Sobre el trabajo de comprador .

See some products and prices at Perennial tender - Oportunidad permanente

Vea algunos productos y precios en Perennial tender - Oportunidad permanente

viernes, 26 de febrero de 2016

Come costruire un brand di successo in Cina, tra leggi, cultura e social

Come costruire un brand di successo in Cina, tra leggi, cultura e social

Alcuni preziosi consigli operativi di Lulie Halstead, ceo di Wine Intelligence, che da molti anni monitora il più interessante ma anche il più difficile mercato del vino attuale


Come costruire un brand di successo in Cina, tra leggi, cultura e social
 
Fabio Piccoli
 
Come promesso ritorniamo sull’interessante relazione di Lulie Halstead, ceo di Wine Intelligence, presentata al recente seminario al recente seminario organizzato da Withers - uno degli studi legali più accreditati al mondo, e impegnato anche sul fronte del supporto delle imprese italiane del food and beverage nei processi di internazionalizzazione – su come costruire brand di successo in Cina. 
 
Nel precedente articolo ( link) avevamo preso in esame i nuovi profili dei consumatori cinesi, in questa seconda parte, invece, approfondiremo il tema del ruolo dei social media in Cina e, soprattutto, le regole chiave per costruire un brand (a partire dall’etichetta dei vini) che possa avere successo e visibilità in un mercato così complesso.

Riguardo ai social media – ha sottolineato la Halstead – in Cina sono una vera e propria "mania". E chiunque abbia avuto esperienze su questo mercato sa che i cinesi stanno incollati ai loro smartphone in maniera quasi ossessiva. Anche mentre si fanno le degustazioni continuano a commentare, ad esprimere le loro impressioni tramite i social. In particolare sono strumenti di comunicazione che hanno un peso determinante per le giovani generazioni. Non a caso nel Wine Intelligence China Internet e Social media report è emerso in maniera chiara quali sono gli utilizzi che i giovani cinesi fanno dei social media riguardo al tema vino.

Al primo posto la risposta è stata "seguire i brand che mi piacciono", al secondo "riprendere argomenti interessanti sul vino e condividerli con le persone che conosco", al terzo "apprendere informazioni tecniche riguardo al vino", al quarto "sentire, leggere opinioni di persone che condividono il mio stesso interesse", al quinto "essere aggiornati su sconti e promozioni". 

Aspettative molto importanti, pertanto, che fanno capire quanto indispensabile sia non solo conoscere le modalità di utilizzo dei social tra in consumatori di vino in Cina ma anche veicolare contenuti efficaci, chiari in grado di soddisfare i loro fabbisogni informativi. Non è un aspetto semplice, soprattutto per noi italiani, alla luce di un’offerta enologica così vasta e di una miriade di peculiarità non sempre facili da comunicare.

A conclusione di questa tema la Halstead ha ricordato che attualmente in Cina sono ben 600 milioni gli utilizzatori mensili di WeChat (oggi il social più utilizzato in questo grande Paese) e Weibo con 212 milioni di utilizzatori attivi al mese (in particolare tramite smartphone).
Molto interessante il capitolo dedicato dalla Halstead alle regole più importanti per costruire un brand enologico di successo in Cina.

In estrema sintesi, la ceo di Wine Intelligence, ha sottolineato che per un "successful wine brand" in Cina vanno soddisfatti i seguenti requisiti:
a) il marchio (trademark) che è il primo elemento che deve influire positivamente sulla fiducia dei consumatori e rassicurare subito sulla qualità del vino;
b) il brand cinese che deve consentire il riconoscimento del marchio:
c) l’etichetta frontale, la prima cosa che i consumatori vedono sugli scaffali che deve orientarli facilmente rispetto a ciò che si trovano di fronte, farli percepire la qualità del prodotto e dar loro la corretta percezione su prezzo e posizionamento (un tema questo spesso sottovalutato dalle aziende anche sul mercato domestico ndr);
d) la retro etichetta deve riportare le informazione più importanti in grado di rafforzare la fiducia e migliorare la comprensione del marchio e del prodotto.
Messa così non sembrerebbe così difficile, i problemi nascono dal fatto, non dobbiamo mai dimenticarlo, che siamo in Cina dove sia le normative che le "percezioni" dei consumatori sono molto lontane dalla nostra cultura, dalle nostre attitudini.
Su questo fronte, pertanto, sono state molto utili le indicazioni della Halstead su come "sviluppare un proprio brand cinese".

Questo brand dovrà avere le seguenti caratteristiche:
- essere unico e protetto dalla Chinese trademark registration (ad esempio sono state trovare in Cina per 50 diverse traduzioni del famoso marchio dell’azienda californiana Opus One);
- essere coerente al valore del marchio e al suo posizionamento;
- essere facile da ricordare e soprattutto da pronunciare.

E riguardo quest’ultimo punto sono tre le strade che si possono seguire:
- omofonica, cioè un nome che in cinese ha un suono simile ad un brand occidentale ma non ha relazioni semantiche;
- letterale, cioè un nome cinese che è la diretta traduzione del nome occidentale;
- simbolica o brand di connessione, cioè un nome che in cinese è in grado di generare sensazioni, idee o simboli simili pur avendo un sound diverso o anche diversi significati letterali.

Riguardo a quest’ultimi aspetti molto interessante (l’approfondiremo in un altro articolo a breve) l’esperienza di Zonin1821 che in Cina ha definito una propria strategia di sviluppo anche attraverso la costruzione di prodotti appositamente ideati per quel mercato con uno studio dei nomi frutto anche di una importante ricerca svolta in collaborazione con Wine Intelligence che ha portato, ad esempio, alla definizione del vino Velluto (con il brand cinese Weilu in questo caso utilizzando la strada omofonica) con un etichetta softouching in grado di evidenziare ulteriormente il significato del nome e le caratteristiche del vino.

Per quanto concerne l’etichetta frontale la Halstead ha presentato una interessantissima esemplificazione di come lo stesso brand presentato in diverse soluzioni grafiche possa determinare agli occhi di un consumatore cinese una diversa percezione, dal "prestigioso", all’"elegante contemporaneo", al "classico moderno", all’"eclettico".

Ma ancor più importante, per un mercato così giovane e per consumatori ancora poco competenti, è la retro etichetta che deve essere in grado di dare informazioni "customizzate" cioè capaci di dare risposte chiare ed esaustive ai clienti potenziali e soprattutto essere coerenti la cultura di questo Paese.

Molto utile, a questo proposito, la ricerca di Wine Intelligence su quali sono le descrizioni dei vini preferiti dai cinesi (ricerca su consumatori abituali di vino importato della middle class).

Di seguito riportiamo le prime 10 più frequenti descrizioni:
- Ricco (inteso come succoso, caldo) e morbido;
- Gusto ricco (intenso);
- Dolce;
- Fruttato;
- Fragrante;
- Equilibrato tra dolcezza e acidità;
- Molto persistente;
- Leggermente acido;
- Leggermendte dolce;
- Vino rosso secco.

Infine, ma anche questo spesso viene dimenticato, gli aromi scelti per la descrizione dei vini devono essere coerenti alla reali percezioni di un consumatore cinese. E sempre dalle sopramenzionata ricerca sono emersi i primi 20 aromi percepiti dai consumatori cinesi intervistati: rosa, ciliegia, vaniglia, mela rossa, fragola, miele, pesca, legno, limone, menta, mango, lici, lavanda, lime, cioccolata, foglia di the al gelsomino, guava, cocco, pera e buccia d’arancia.
Fonte di informazioni: Wine Meridian

jueves, 25 de febrero de 2016

Los compradores de vino en Hong Kong comienzan a consumirlo

Los compradores de vino en Hong Kong comienzan a consumirlo

Comienza a apreciarse un cambio de tendencia de compra de vinos para inversión y regalos, hacia la compra para consumo, informa un importador asiático



El patrón de consumo comienza a cambiar en Hong Kong, si bien hasta hace poco esta ciudad-estado de China compraba vino como bien de inversión, ahora se comienza a comprar vino para su consumo inmediato, según informa, en el Daily Mail, The Fine Wine Experience, uno de los importadores más reputados de la ciudad asiática.

Ante el creciente aumento de los precios de los vinos franceses, lo preferidos hasta ahora en Hong Kong, sin producirse un retorno de la inversión, los amantes del vino en Hong Kong ya no compran vino para su "inversión" (sin intención de beberlos).

"Esta tendencia hace que el mercado del vino en Hong Kong sea más natural. Porque el vino debe ser realmente para beber", afirma Linden Wilkie, de The Fine Wine Experience.
"Ahora se está impulsado el comercio hacia los consumidores finales. En la primera década del 2000 era difícil ver un comprador que bebiese los vinos, simplemente se compraban vinos para regalar o para invertir, por eso se compraban más vinos franceses", recalca Wilkie.

Por otro lado, la escasez de espacio y el clima en la superpoblada ciudad china hace que no sea fácil almacenar y crear una bodega para guardar durante largos periodos el vino. "Casi no hay espacio, los precios de alquiler son una locura debido a esta falta de espacio y también a causa de la tecnología involucrada. Se necesita una temperatura controlada, unidad de almacenamiento seguro y, a menos que tenga una vasta colección de vinos, para el bebedor promedio de vino no vale la pena", señala la responsable de la firma.

El otro escollo en el consumo de vinos en Hong Kong, según indican desde The Fine Wine Experience, es "aumentar la cultura del vino", dijo Wilkie. "En Europa el vino es habitual en una reunión de amigos en un bar, o un componente necesario para una buena comida en casa o en un restaurante, un enfoque que en Hong Kong todavía no se tiene", concluye.

Orígen información:  Vinetur

miércoles, 24 de febrero de 2016

Récord de exportaciones


Récord de exportaciones

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Por más peros que se le puedan poner a nuestras exportaciones, no hay nadie que esté en disposición de renunciar a ellas, es más, ni tan si quiera de cuestionar su utilidad. Los más atrevidos llegan a plantearse la necesidad de ir dándoles la vuelta, trasladando una buen parte de lo que actualmente se exporta como vino a granel, hacia el envasado. Otros, algo más intrépidos si cabe, llegan a cuestionar a quiénes vendemos nuestros vinos y comienzan a denunciar que hay que cambiar la estructura comercial de las bodegas españolas para conseguir salir a encontrar compradores, en lugar de, como venimos haciendo hasta ahora, esperar a que llamen a nuestra puerta para comprarnos. Y todos, en eso sí coinciden, resaltan su importancia y las señalan como la única alternativa que presenta el sector ante un mercado interior hundido.

Incluso los hay que se esmeran en analizar lo que está sucediendo en el mercado interior con el consumo de vino, las grandes dificultades con las que se enfrentan las bodegas a la hora de llegar a los jóvenes, o el escaso número de ocasiones en las que se consume por semana y los valores que aspiran a encontrar los consumidores en cada botella cuando la adquieren.

El problema está en que esto, más que una vía de solución al endemoniado problema de excedentes que tenemos en España, se ha convertido en una especie de bucle que se retroalimenta y se va haciendo cada vez más grande sin que nadie sepa muy bien por dónde meterle mano. Hasta el punto de que se ha invertido la cadena de valor en la formación del precio y, lo que debía ser una actividad empresarial rentable para todos los integrantes del proceso, se ha convertido en una especie de “potro de tortura” en el que cada colectivo, conforme va alejándose del consumidor, asume una mayor parte de las pérdidas.

Y aunque los hay que, ayudados por la misma Unión Europea que les condiciona en sus actuaciones y les impide desarrollar campañas a favor de recuperar el consumo de vino, han optado por reestructurar sus viñedos y pasar a producir tres, cuatro o incluso cinco veces lo que producían, con el único fin de generarse ingresos suficientes que garanticen su supervivencia. Esa alternativa se demuestra totalmente inapropiada para la colectividad e incluso llega a poner en serio peligro la supervivencia del modelo tradicional vitivinícola español de calidad.

Producir a precio puede ser una alternativa para algunas bodegas y viticultores, pero nunca (en mi opinión) puede ser un modelo para un país, regiones o provincias como las españolas. Tenemos que entender que de la misma manera que en los años noventa los vinos españoles fueron ocupando el lugar que hasta entonces habían ocupado los italianos como productores de vinos con apenas valor añadido, llegarán otros que hagan lo mismo con nosotros. Y aunque hay quien, que de una forma muy optimista, piensa que eso sucederá cuando nosotros vayamos abandonando ese mercado porque vamos mejorando el valor añadido de nuestros elaborados; también los hay que consideran que las condiciones del mercado han cambiado, que nos enfrentamos a una saturación mucho mayor de la que entonces había, que los procesos se suceden de una forma mucho más rápida y que esta evolución supondrá que muchas hectáreas, bodegueros y cooperativas se queden por el camino. Y con ellos el papel medioambiental que representa en nuestra geografía el viñedo y su capacidad para la fijación de población al medio rural, que la mala situación económica vivida en estos últimos años ha ayudado a mantener a pesar de su rentabilidad negativa.

Si queremos felicitarnos por los datos de nuestras exportaciones, hagámoslo. Disfrutemos del momento. Pero seamos conscientes de que pende sobre nuestras cabezas como la Espada de Damocles.


One thought on “Récord de exportaciones”



Saludos Salvador,

Algunas reflexiones sobre tus comentarios:

1. Dices “hay que cambiar la estructura comercial de las bodegas españolas para conseguir salir a encontrar compradores, en lugar de, como venimos haciendo hasta ahora, esperar a que llamen a nuestra puerta para comprarnos.”..

Mi comentario es contrario a esa opinión. El vendedor debe cubrir una necesidad. Por tanto debe ser activo pero no persiguiendo al comprador si no informando, creando imagen y marca, siendo serio, estando presente físicamente y por internet en los diferentes lugares de encuentro (ferias, foros,…)

Sobre lo anterior una experiencia de hace unos 15 años. Viajando por la zona de Gascogne-Euskadi Norte, es decir Francia tocando a la frontera española , una propietaria de una tienda en franquicia amante de los vinos y del Rioja me comentaba el deconocimiento sobre la D.O.C. Rioja que tenían sus clientes (que están a 100 km de distancia en promedio de la D.O.C. Rioja) 

¿Sorprendente? Miremos la situación del otro lado. ¿Que sabe el consumidor desde España de los interesantes vinos de esa zona como por ejemplo el Malbec producido en Cahors o de los vinos de Madiran basados en la variedad Tannat o ,más lejanos, de los excelentes vinos de Savoie/Saboya?

2. Dices “Producir a precio puede ser una alternativa para algunas bodegas y viticultores, pero nunca (en mi opinión) puede ser un modelo para un país, regiones o provincias como las españolas.”

Entiendo que al hablar de “producir a precio” te refieres a precios bajos. ¿Es esa la realidad del vino español? Sí cuando se miran las estadisticas de precios de las exportaciones globales. Sin embargo cuando uno va a la vinoteca o incluso en las grandes superficies la oferta de vinos en precio suele estar por encima de los 6 euros/botella.

Un consumidor normal quizás pague excepcionalmente vinos de 6 euros para arriba basado en su conocimiento de la bodega y en la ilusión por el producto, pero el consumo del vino cotidiano dentro de España no puede estar basado en precios altos sino en precios justos, medios (gama de 3 a 7 euros/botella) o bajos (2 a 3 euros/botella) o altos (por encima de los 7 euros) pero como acto excepcional y complementario a las gamas de vinos con precios más razonables y siempre que la calidad (buen vino, producciones limitadas, taponado de calidad, etiquetado atractivo, historia de marca,…) justifique ese sobreprecio

Orígen información: SalvadorManjon.com

Las estrategias de los sistemas de pago de Amazon, Apple y Samsung

Las estrategias de los sistemas de pago de Amazon, Apple y Samsung

 

Ahora que se acerca el Mobile World Congress, todas las miradas están puestas en las tendencias mobile de este año. Según el informe de BI Intelligence, aunque el m-commerce crece cada vez más, está todavía muy por debajo del ordenador en ratio de conversión, un 15% de conversiones desde móvil frente a un 75% de conversiones vía ordenador (el 10% restante se lo llevan las tablets).

La principal razón es posiblemente la usabilidad: es difícil encontrar los detalles o rellenar un formulario de pago en una pantalla de móvil. Pero las malas experiencias en el proceso de pago tienen consecuencias negativas más allá del abandono de una compra en concreto: es una experiencia que no se olvida fácilmente; no perdemos una compra, perdemos un cliente.

Las tendencias indican que muchos m-commerce incorporarán medios de pago similares a Apple Pay o Shopify. Samsung ha desarrollado un sistema muy orientado al NFC (Near Field Communications, tecnología que permite que dos dispositivos próximos físicamente compartan pequeñas porciones de información). Apple complementa el sistema NFC con el pago en apps de terceros.

Amazon ha adoptado una estrategia diferente: son los comercios o empresas quienes implementan el sistema, lo que permite a los usuarios registrados en Amazon pagar directamente sin necesidad de volver a registrarse ni volver a dar todos los datos.

Así, de acuerdo con Icar Vision, ¿cuáles son las claves de estos tres sistemas de pago?

Samsung, orientación al pago NFC

El claim del sistema de pago Samsung Pay es «Simple, Secure, And Designed With Our Best Available Security», es decir, se enfoca al usuario, que es quien lo instala, y sus argumentos se basan en la simplicidad, la seguridad y la usabilidad.

Las claves, un proceso de instalación y configuración optimizado al máximo, que facilita el registro y los posteriores pagos; y un especial énfasis en la seguridad: mantiene la información separada, no la almacena ni la comparte con terceros. Incorpora un proceso biométrico: permite el pago con la simple validación de la huella dactilar, lo que simplifica al máximo la gestión.

Otro argumento, secundario, es la compatibilidad: según Samsung, se puede utilizar este sistema de pago en casi cualquier parte donde se pueda utilizar también la tarjeta de crédito.

Un problema de este enfoque es que se centra sobre todo en el pago offline, con la idea de sustituir la tarjeta de crédito física por el pago vía mobile, pero no hace especial referencia al pago estrictamente online.

Apple, pago NFC y apps

Apple Pay da un paso más allá respecto a Samsung, e integra el sistema NFC para los pagos en tienda física y para pagos en apps.

Sus argumentos son muy similares: «Secure, simple, and even more useful». Ponen la seguridad por delante de la simplicidad, y el concepto de más útil amplia las funcionalidades y lugares donde se puede utilizar (más integración).

El sistema Touch ID, igual que el sistema de Samsung, permite pagar simplemente con la huella dactilar, previamente escaneada.

Otra forma de pago rápido que ofrece Apple como alternativa al Touch ID es el sistema de doble click, este disponible tanto para móvil como para el Apple Watch. La rapidez es la misma, pero la validación se realiza con un doble click en la pantalla.

Su enfoque también es hacia el usuario: seguridad, facilidad y rapidez, con el plus de integrarse también a las compras en app y permitir el pago a través del Apple Watch. En resumen, aplica similar proceso y funcionalidades que Samsung Pay, pero a más canales, por lo que es más “utilizable” para el consumidor.

Amazon: enfoque a la empresa, soluciones para el consumidor

En el caso de Amazon Payments, se diferencia ligeramente enfocándose a empresas y e-commerce, con argumentos basados en crecimiento de negocio y tasas de conversión.

La automatización es otro de sus puntos fuertes, orientada por una parte a facilitar y simplificar la experiencia del usuario, y por otra a proporcionar a las empresas y e-commerce una herramienta no solo a automatizar al máximo el proceso de pago, sino a construir relaciones a largo plazo con sus clientes, a través del respaldo de la “marca Amazon”.

Así, Amazon ofrece a las empresas que los usuarios paguen con su cuenta, en vez de realizar un segundo registro (o tercero, o cuarto…). El usuario percibe facilidad y la confianza que le genera Amazon, lo que aumenta las ventas y la conversión. Como factor a destacar, Amazon no comparte los datos de pago con el tercero, así que genera un plus de seguridad en el trato de datos personales y bancarios.

El planteamiento es claro: si has comprado alguna vez en Amazon, puedes comprar de forma rápida y fácil en otros e-commerce. El punto débil, que solo se aplica a pagos online, no integra (de momento) tecnología NFC.

En resumen, todo apunta a que los métodos de pago no solo serán cada vez más sencillos, rápidos y cómodos para el usuario, sino que las empresas tenderán cada vez más a la integración: acuerdos con grandes plataformas de pago para evitar nuevos registros; máxima integración offline, online, móvil, apps…; y nuevas soluciones de identificación (biométricos, identificación de datos a través de una foto a la tarjeta…).


Orígen información:  ECommerceNews

martes, 23 de febrero de 2016

El aceite de oliva “intenso” se come al virgen. El precio canibaliza las ventas de los mejores aceites de oliva

El aceite de oliva “intenso” se come al virgen
El precio canibaliza las ventas de los mejores aceites de oliva 
 
 
  

Tras cuatro meses de la campaña actual del aceite de oliva la Asociación de Industriales Envasadores y Refinadores (Anierac) ha presentado el balance de las salidas desde octubre hasta finales de enero y los datos no pueden ser más clarificadores. El factor precio ha tenido una importante repercusión negativa sobre las categorías de virgen y virgen extra a favor de las categorías más comerciales como es el aceite de oliva “intenso”.

Según los datos elaborados por Anierac, las salidas de aceite de oliva virgen han caído un 25%, (de las 20.404 toneladas a las 15.243 ton de la campaña actual) y de virgen extra un 2,75%, mientras que la demanda de aceite de oliva “intenso” sube un 30,20%, pasando de las 15.823 toneladas en octubre de 2014 a enero de 2015 a las 20.602 ton en el mismo periodo de esta campaña.

Si hablamos del aceite de orujo de oliva seguimos asistiendo a un escenario de reactivación de la demanda en el mercado doméstico. Las cifras de estos cuatro primeros meses de campaña indican incrementos del 23,6%, respecto al mismo periodo del año anterior hasta alcanzar un volumen de 5.800 toneladas.


Orígen información: Olimerca

Especial MBA Enología: El tapón, una opción delicada


Especial MBA Enología: El tapón, una opción delicada

Especial MBA Enología de IMF Business School


 Carlos Delgado, crítico en El País y tutor del MBA Especialidad Enología de IMF Business SchoolCarlos Delgado, Periodista, escritor, y crítico enogastronómico del diario “El País” y tutor del MBA Especialidad Enología de IMF Business School

A la hora de diseñar el vino, uno de los factores a los que se suele prestar menos atención, pero que tiene una importante incidencia en su éxito comercial y económico, es el tipo de tapón. La cuestión no ha adquirido relevancia hasta hace poco, porque la primacía y dominio absoluto del corcho era -todavía lo es en el segmento alto- indiscutible. Sin embargo, la aparición de otras opciones como el plástico, sintéticos, rosca o el cristal, amplían notablemente las posibilidades de elección. Tanto más, cuanto que uno de los más serios hándicaps del corcho es su posible contaminación, el temido bouchonné, (sabor a corcho) con el resultado catastrófico de estropear el vino y dañar la imagen de la marca y por extensión la bodega.
En este especial de Enología vamos a ver, en un somero repaso, qué ventajas e inconvenientes tiene cada tipo de taponado de la botella de vino.

Tapones de corcho

Sin duda, la mejor opción tanto desde el punto de vista de la evolución del vino en la botella, como de la imagen, ya que el corcho natural siempre estará asociado al vino de calidad. El primer inconveniente es el mencionado bouchonné, generalmente producido por el temible TCA (tricloroanisol) y sus derivados. El efecto es catastrófico y su control muy difícil, ya que resulta imposible chequear uno a uno todos los corchos que llegan a nuestra bodega. Sin embargo, las corcheras más responsables, como Amorín o Sabaté, y su Código de Buenas Prácticas Taponeras, han conseguido reducir la posible contaminación de sus corchos naturales. De hecho, tan solo el 3% de las cerca de 30.000 millones de botellas de vino producidas anualmente sufre alguna alteración del vino achacable al corcho. Es decir, el riesgo es muy pequeño, pero las consecuencias muy graves. La gama de tapones de corcho natural es amplia: Flor, Extra, Superior, Primera, Segunda, Tercera, Cuarta y Quinta.
Para los que no quieran correr el riesgo, por muy ínfimo que sea, existen alternativas de tapones de corcho elaborado, como los Altec, una mezcla de micropartículas de corcho y microesferas de síntesis, o Diam (www.diam-corchos.com) un conglomerado de corcho tratado con la tecnología Diamant, que ha logrado eliminar alrededor del 97% del TCA. Pero se trata de productos caros, elaborados con tecnologías vanguardistas, en base a polvo de corcho natural. Otras opciones más económicas son los tapones de colmatados, de dos piezas, aglomerados, mixtos de aglomerado y natural, técnicos (1+1, 2+2, 2+0), Spark para espumosos, ProCork (con una membrana de polímero), T-Cork, tipo cabezudo con cápsula.

Tapones sintéticos

Se trata de un tapón elaborado a base de polímeros inodoros hechos substancialmente de silicio. Tienen el inconveniente de que su taponado es menos eficaz que el ofrecido por el tapón de corcho natural y que suelen contraerse con el paso del tiempo. Es la alternativa más habitual en los vinos de gama media-baja, generalmente jóvenes y consumo rápido. La última generación de este tipo de material incorpora una especie de válvula lo que posibilita cierto intercambio de oxígeno, y permite su utilización en vinos que necesiten evolucionar algo en botella. Claro que su precio puede ser superior al de algunos tapones de corcho. En el mercado existen numerosas marcas, algunas de gran calidad, y con todo tipo de acabados y colores.

Tapones de rosca

Aunque nacieron en 1959, de mano de la compañía francesa La Mécanique Bouchage y su STELCAP-vin, ampliamente utilizados en las botellas de generosos, y otras bebidas, han evolucionado notablemente en los chequearo la anilla de cierre. Son grandes entre los de corcho natural del alcornoque, cuyo e imagen y en últimos tiempos y hoy ofrecen una buena imagen y prestaciones. Están fabricados en aluminio, los mejores y más seguros, o plástico. Los hay con distintos tipos de revestimiento, que posibilitan diferentes niveles de intercambio de oxigeno. Se muestran particularmente eficaces en el mantenimiento de los aromas frutales de los vinos, aunque no es muy recomendable utilizarlos en vinos de crianza. Entre sus ventajas destaca que su cierre permite un consumo del vino más fácil, aunque se pierde el rito del descorche. Tal vez por eso, tienen más éxito en países de escasa tradición vinícola, como Europa del Norte, Australia, Nueva Zelanda, China, India, etc.

Tapones de cristal o vidrio

Cada vez más utilizados en vinos de calidad, siguen siendo tapones poco comunes. Ofrecen una imagen original, innovadora, elegante, y singular, por lo que es una opción atractiva, aunque resultan caros. Uno de los más prestigiosos, elaborado con cristal de Bohemia, es Vinolok. Estos tapones pueden tener varios tamaños y estar decorados o coloreados, tanto la parte superior como la anilla de cierre. Es habitual cubrirlos con una cápsula, generalmente trasparente. De fácil manejo, está por ver como pueden afectar al envejecimiento en botella de los vinos.
En cuanto a los precios, las oscilaciones son grandes entre los distintos tipos de corcho natural, que pueden ir desde 0,60 € el tipo flor a 0,10 € un aglomerado; los sintéticos suelen rondar 0,03 €; el tapón de rosca entre  0,10 €  y 0,15 €; y el de cristal de 0,40 a 0,60 €.
Como se ve, la opciones para taponar una botella de vino son cada vez mayores, pudiendo ajustar los parámetros de imagen y eficiencia enológica al tipo de vino. Sin duda, el corcho sigue siendo el rey, tanto por sus virtudes de elasticidad, estanqueidad, e intercambio de oxigeno, imprescindible para el envejecimiento en botella, como porque es un producto natural del alcornoque (Quercus suber) que es uno de los componentes del bosque mediterráneo, cuyo valor medioambiental es importantísimo en nuestro país. Algo que siempre debemos tener muy en cuenta.

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  Los peores vinos que he tomado han sido tapados con plástico extrusionado. Básicamente el motivo era un gusto de plástico que se agarra a la mándibula.
En algún caso y en vinos de casas muy prestigiosas el vino sin tener el defecto mencionado anteriormente carecía de frescura y uno se planteba la pregunta de que hubiera sucedido si hubiera sido tapado con otro material y también que factores (conservación, paso del tiempo,…) pueden influir en el malgusto agresivo que había detectado.
Es interesante consultar la experiencia de Domaine Laroche que tras 10 años de uso comparativo de tapón de rosca y de corcho ha vuelto al corcho. Ver en http://spainwinesnews-noticiasdevinoespanol.blogspot.com.es/2016/02/cork-vs-screwcap-why-domaine-laroche.html


 Orígen información: IMF Business School


lunes, 22 de febrero de 2016

Translating Terroir: Five wines from Sierra Cantabria, five stories to tell

Translating Terroir: Five wines from Sierra Cantabria, five stories to tell

The wines of Sierra Cantabria are the result of the hard work and inspiration of five generations of growers – five generations in touch with the soil, with the sky, with the seasons. Marcos and Miguel Eguren represent the current generation, and of their five wineries, four are in Rioja, and one is in Toro.



Sustainability is at the heart of the family philosophy. It’s all about caring for the soil and transmitting the spirit of the terroir through the Tempranillo grape; even the stone used to build the Sierra Cantabria winery came from the estate. A few years ago the family decided to embark on a journey towards biodynamics – not embracing the more esoteric aspects, but building on what they had already done. Mineral fertilisers and chemical herbicides had been banished 30 years ago; now they began adapting what they were doing to lunar cycles and the rhythms of nature. This sort of change, they say, was simple – but expensive!

The Sierra Cantabria Rioja vineyards are in San Vicente de la Sonsierra, protected from cold north winds by the Sierra Cantabria mountains. The grapes for Sierra Cantabria Reserva come from Tempranillo vines of over 30 years of age, with the very low average yield of 31 hectolitres per hectare. The vineyard sites here vary greatly: some are rugged, some flatter, some planted with very old vines some with younger vines. But all benefit from the confluence of the Atlantic and Mediterranean climates. Each vineyard therefore has its own character, and it is these different expressions that the wines are intended to transmit. For example, the yeast is a native one, selected on the estate; this applies to all the family’s wines. The choice of oak is careful: for Sierra.

Cantabria Reserva the barriques are French and American oak barriques, and 20% are new. The wine is racked but not filtered. Sierra Cantabria Colección Privada comes from even older vines: just four hectares planted in 1957 and 1959. The average yield is tiny, at 24 hectolitres per hectare, and all the grapes are handpicked in perfect condition. Half of the grapes are whole-cluster fermented, and the wine is aged for 16 months in new oak barriques of which half are French and half American. The result is a combination of modernity with tradition.

At Señorio de San Vicente the vineyard is called La Canoca, and the grape is the almost extinct and very low-yielding Tempranillio Peludo, hairy Tempranillo – the hairs are, as you might guess, on the underside of the leaves rather than on the berries. The winery here was founded in 1991, but the story goes back further – to the early 1980s, in fact. That is when Guillermo started taking cuttings of the very best old Tempranillo he could find, and propagating them on the south-facing slopes of La Canoca. Here the chalky-clay soil and the big variation between daytime and nighttime temperatures provide an ideal environment; the first vintage of San Vicente was in 1991. The wine is aged for 20 months in new barriques, of which 90% are French oak.


El Puntido comes from another winery again, this time Viñedos de Páganos in the medieval village of Laguardia. It’s a magical spot: lovers of dolmens, ancient churches and archeological sites will be very happy here! The vineyard name, El Puntido, means ‘staircase landing’ and it refers to the topography of the land, which lies at about 600m between the high Sierra de Cantabria and the lower river plain of the Ebro. The vineyard surrounds the cellar; the soil here is chalky clay and clay-loam over sandstone, south facing, gently sloping, and planted with Tempranillo in 1975. The roots go down deep, and as a result the wine has a palate of concentrated minerality. Fermentation is in stainless steel vats, and the wine is aged in new French oak barriques.

For Victorino, breed of Toro wines, we leave Rioja. The family fell in love with the land of Teso La Monja some 15 years ago, not least because it was (and is) planted with ungrafted pre-phylloxera Tinto de Toro – the local name for Tempranillo. The vines range from 45 years of age up to a full century and the yield is a miserly 10 hectolitres per hectare. The family had already made outstanding Toro in the shape of Numantha-Termes; now they wanted to make a fresher, more mineral expression of Toro, with elegance to match its power.

The site is north-facing, with loamy, gravelly soil and offers a long vegetative cycle. The winery itself reflects the sober elegance of the wine, and also its modernity: it is equipped for five different vinification systems – closed vats set up for pigeage, ordinary closed vats, open vats with pigeage, ordinary open vats, open conical vats. And actually there’s a sixth variation as well: an egg-shaped oak vat, courtesy of Taransaud, which seems to produce a particularly silky and integrated result.

Victorino gets light pumpovers during its stay in vat, but more notably, it’s foot-trodden three times a day during fermentation – that’s about as traditional as you can get, and it extracts only very lightly, thus allowing the full elegance of the grape and the vineyard to come through. The oak used for ageing is all new, and all French. The result is a wine of great complexity and freshness: Above: Teso Toro as it would like to be.
Origin information: Decanter

Jefford on Monday: The Jerez terroir challenge. The last three decades have been traumatic for Jerez. Its vineyard area has collapsed from almost 23,000 ha to around 6,500 ha now.

Jefford on Monday: The Jerez terroir challenge

The last three decades have been traumatic for Jerez. Its vineyard area has collapsed from almost 23,000 ha to around 6,500 ha now. Solar panels, not Palomino vines, which now turn sunlight into energy in a number of the region’s great albariza vineyards, writes Andrew Jefford.

The Jerez terroir challenge

Many of the grandees have departed. Osborne has pulled out of sherry production; Domecq has been dismembered; Sandeman, Croft, Harveys, Garvey and Terry have gone, even though their names linger on, ghost-like, on labels. A number of high-quality Brandy de Jerez brands have been travestied and are now ‘spirit drinks’ containing no grape-based spirit at all, bottled at 30%. Much of the region’s future depends on the Chinese Filipino billionaire Andrew Tan, who not only owns Harveys and what remains of Domecq’s holdings in Jerez as well as other sherry and Jerez brandy brands, but who also owns an undisclosed but significant percentage of Gonzalez Byass’s assets.
Times of commercial catastrophe, of course, are also times of opportunity. Jesús Barquín and his Equipo Navazos (of whom more in a later blog) have had a huge impact in rekindling global interest in fine sherry and making it gastronomically relevant, even hip. The canny Estévez family now has a peerless sherry portfolio via Valdespino and La Guita. Jan Pettersen of Fernando de Castilla has shown that great sherry, beautifully packaged, can find a thriving market. Gonzalez Byass itself has been admirably creative with its beautifully packaged En Rama and Palma bottlings.
And then … there are the region’s youngsters. They too would like a role in saving their region for the future – but how? A benchmark fino like Valdespino’s Inocente is literally the work of generations, and financing its ten-criadera solera requires huge resources. Even buying an almacenista (a private stockholder or wholesaler) demands substantial capital. What if you don’t have any?
The answer lies in those great vineyards, but outside the DO. It means table wines, and it means terroir.
The sherry grape is Palomino, and at first glance it doesn’t seem well-disposed to the youngsters. It’s a low-acid white of neutral character, and Jerez (which lies south of Tunis and almost as far south as Algiers) has a hot climate. Barbadillo’s Castillo de San Diego is the leading local Palomino table wine and sells well nationally, though it doesn’t trigger much critical rhapsody. “It’s improved,” a Spanish friend told me. “It now tastes like wine, whereas it used to taste like water. But it’s still mostly drunk by people who don’t like wine.” You can buy this Vino de la Tierra de Cádiz for €3.58 from Barbadillo’s own website. A price like that betrays modest ambitions. It does its job honorably, but it won’t save Jerez’s soul.
Step forward, into this unpromising scene, Ramiro Ibáñez. He’s a deep-thinking, widely experienced consultant who formerly worked for one of Sanlúcar’s biggest co-operatives, Virgen de la Caridad, as well as the local viticultural research station. He now has his own little wine workshop down on Sanlúcar’s waterfront, within view of the ferry which shuttles to and from the Cota Doñana, working under the Cota 45 name. He gave me a crash course in the region’s seven different soil types in the region and their “mouth geometry”; he also explained the differences between vineyards which face the Atlantic Ocean and those which are sheltered from it. And through his wines, sold under a variety of different names and ‘editions’, he is attempting to lend all of these differences sensorial expression, mostly using Palomino, but calling on other varieties like PX and Uva Rey, too. If your only experience of Palomino table wine is Castillo de San Diego, Ibáñez’s wines are a revelation (see below).
Step forward, too, Fernando Angulo and Alejandro Muchada. Both of them have worked in Champagne, and know Anselme Selosse; both are mindful of the similarities between Jerez’s chalks and sands and those of distant Champagne. Both have seen and noted the grower revolution in Champagne, too – a region where the hegemony of the large company and its pan-regional blends, once thought absolute, is now at an end. Why not here, too?
From a tiny cellar in the centre of Sanlúcar, they produce a bewildering array or more-or-less natural sparkling wines and one or two still ones, too, under the Alba label. These include single-vineyard releases – since their quest, too, is for the complexity which can, they claim, only come from great sites treated with the maximum of respect.
No debate about maximising the sense of terroir in wines from Jerez would be complete, though, without alluding to the fact that this is palpable in sherry as well, particularly in Fino and Manzanilla styles. When recently in Jerez, I spent some time with the Estévez group’s winemaking chief Eduardo Ojeda, tasting young wines and different solera stages for both La Guita Manzanilla (including wines from the gently sloping, consummately maritime site of Miraflores, with its russet lustrillo soils) and for Valdespino’s Inocente (from the steeper, more ‘continental’ site of Macharnudo, with its brilliantly white albariza soils).
It is Ojeda’s almost obsessive contention that vineyard origin is just as important in creating the final personality of a sherry as is ‘the sherry method’ itself – and the comparison between the two sets of raw materials was certainly striking. Macharnudo base wines are masterful, voluminous, concentrated and structured, while Miraflores base wines tend to be supple, fugitive, grainy and saline. The group has set itself other terroir challenges: from 2015, for example, all its fortifying spirit is distilled from local Palomino (a sherry first), while it will have a Macharnudo brandy to sell in due course. “Whether it will be good or not, we don’t know yet,” says Ojeda “– but we’re certain it will be more authentic.” That, perhaps, sums up Jerez’s future.

Tasting Terroir in Jerez

Ramiro Ibáñez produces the best unfortified wines I’ve yet tasted from the Jerez region: sensitive, questing wines of great insight and nuance, though quantities are tiny and they require explanation if you are to get the most out of them. They prove firstly that Palomino can be a great vehicle for the non-fruit notes we call mineral; secondly that it can deliver wines of real substance here; and thirdly that marked acidity is not necessary for balance in Jerez table wines.

Best of all were two 2015 wines tasted from cask (one from the Carrascal vineyard of Sanlúcar and one from the Maina vineyard of Sanlúcar), both of which had been given two days of sun-drying after the harvest: truly dense, brimming with allusive richness (dry grass, rice, malt, seaweed). Among the bottled wines the non-vintage Cinque from the Pitijopos ‘Volume 1’ series was haunting (understated scents of bread, honey and powdered stone, with a mouthfilling, low-acid yet firmly structured flavour evoking, perhaps, quince and turmeric, 91) while the 2013 Palomino Centenario from the UBE range, made from three types of old-vine Palomino grown on grainy Antehojuela Albariza soils showed enticing wild hawthorne scents and had a more pungent, assertive flavour with an almost tannic finish (89).
The Alba wines are variable in quality but the best are unique and compelling, once again proving that Palomino can convey ‘minerality’ effectively, and that early harvesting for this grape in this place need not mean a raw, unyielding style or hard acidity. Jerez Palomino, remarkably enough, seems able to convey its intrinsic amplitude within an alcoholic spectrum which ranges from 10.5% to 14%. Best of all from Alba is the non-vintage Ancestral: teasing scents of saltmarsh, clifftop grasses and a little grape sweetness, with a poised, well-rounded, tingling flavour in which the flavours of straw, fennel, saffron and peach are expressed with typical chalk elegance and finesse (90).
It’s worth noting, too, that the Equipo Navazos range includes the unfortified Niepoort Navazos, pressed from Macharnudo grapes and butt fermented. The 2014 vintage is fresh, softly yeasty, tangy, with subtle, gentle, understated flavours of green malt and chalk dust (89).

Origin information: Decanter

Who's Who in Poland

Who's Who in Poland

Monday, 8. February 2016 - 9:45
Biedronka discount store, Poland
Biedronka discount store, Poland

 Wojciech Bońkowski

Poland remains a relatively small wine market: 175m L were imported in 2013. But it excites exporters because of its consistent 5% to 10% growth per year and the opportunities it offers. Poland is already a major destination for countries like Bulgaria, Moldova and Georgia, but also Portugal and Germany, while Australia and New Zealand are growing in double digits. But who really are the influencers of this complex market?
Multiple grocers
The Polish wine market has undergone a revolution in the last five years, with the rise of hard discounters such as Kaufland, Lidl, and Biedronka. Owned by Portugal’s Jerónimo Martins, Biedronka is the country’s second largest business with 2,600 shops and a turnover of €8.5bn ($9.5bn). Its wine market share has soared from 0% in 2010 to more than 30% today. Its strategy — a narrow range from Portugal, Spain, Italy and France rotating every month, priced at €2.50 to €7.50 — has proved immensely popular with shoppers, not least because the wines deliver quality at the most popular price point, €4.00 per bottle (of which €1.00+ is tax). Lately, Biedronka’s growth has slowed, and its wine range has lost its novelty, but it remains Poland’s strongest wine retailer. The buying department is a notoriously tough negotiator but maintains a low profile — Biedronka being very discreet about people who work there.
Lidl has 550 shops, and an accordingly smaller wine market share than Biedronka, but has been better at marketing, including hiring celebrity chefs Pascal Brodnicki and Karol Okrasa in an unprecedented food & wine campaign. It has also been bolder in its wine buying — including a now-famous episode with the 2010 Château Talbot at €50.00, that was subsequently heavily discounted — but tends to be overly France- (and Bordeaux-) reliant.
Biedronka and Lidl’s ascent has largely happened at the expense of supermarket chains that used to dominate the market. According to KPMG, discounters now have 46% of the market while hyper- and supermarkets, 35%. Carrefour, Auchan, Leclerc, and Tesco are losing market share, partly because the shop format is not working anymore, and partly because their wine strategy is hopelessly unmodern: no focus, no communication, no competitive advantage. It is hard to see that trend reversing. Smaller, more deli-like chains such as the Polish-owned Alma, on the other hand, are growing, notably because they move toward 100% own imports (Tesco Poland has less than 50%), meaning a more individual range and higher margins.
Multiple specialists
The rise of the discounters has killed not only supermarket chains but also those who supply them. Large national distributors such as Ambra (with its now-defunct fine wine arm called Centrum Wina) and CEDC/PWW were at the forefront of the wine revolution in the 1990s, but are now struggling. They have lost the entry-level game to aggressive competition from discounters, and are losing much of the on-trade because of obsolete tactics, such as exclusivity contracts, often with incentives in cash/goods. Selling everything from bag-in-box to global brand icons, they lack focus and suffer from high overheads. Even Ambra’s incisive CEO Robert Ogór, once the market’s éminence grise, appears in search of a coherent strategy: his latest idea is to focus on cider, Poland’s hottest alcoholic drink at the moment. Can large distributors reinvent themselves? The jury is out but the clock is ticking.
Independents
The implosion of the high-street chains at mid-range has opened a window of opportunity for independent specialists. This is a highly competitive market with an estimated 700+ players, many underperforming because of poor business skills. But the best ones are finding that with the proper dedication and strategy, the sky is the limit. Poland’s leading retailer has consistently been Robert Mielżyński, a Canada-born Pole who repatriated in the 1990s and initially benefitted from the deep contacts of his father, Peter, Canada’s leading wine importer. But Robert has also patiently built a staggering VIP clientele that today buys €4m worth of wine from just three retail outlets, as he does almost no distribution. Mielżyński’s wine depot-cum-bistro format has been widely copied (including abroad, as in Verona’s Signorvino) but never matched. His secret: he is on the premises every day, shaking hands with every customer.

Robert Mielzynski, Poland's leading retailer

Robert Mielzynski, Poland's leading retailer

Other success stories include Guillaume and Joanna Deliancourt of DELiWINA, a French–Polish couple with experience at London’s Hallgarten, who moved to Poland in 2010. They have amassed a portfolio of riches including Pol Roger, Albert Mann, François Villard, and Tenuta San Leonardo. Unlike Mielżyński, DELiWINA chose to focus on the on-trade, which rendered them immune to the retail race to the bottom. Good taste and some shrewd buying adding to the equation, they achieved listings in all the major restaurants and now even custom import for third parties.
Winkolekcja is a large distributor with a turnover of €5m, of which 95% is on-trade. It has grown organically over a decade, but gained momentum after hiring Piotr Kamecki, Centrum Wina’s former CEO, who brought with him a platinum list of suppliers such as Gaja, Vega Sicilia and Musar, as well as an efficient network of sommelier and restaurant manager contacts. It also helps that he is president of the Polish Sommelier Association. His behind-the-scenes influence is perhaps unmatched in Poland.
Other on-trade specialists include Vini e Affini, Poland’s leading Italian wine importer; The Fine Food Group Polska, which atypically started with South Africa but now imports everything from Prosecco and Rueda to Eben Sadie; and Vive le Vin, the one-man operation of Artur Zarzycki, a former sommelier who specialises in New World boutique wineries. There are many, many others — it is clearly small independents who shape the Polish market.
Online retailers
When it comes to the Internet, Poland lags behind Western markets: an estimated 1% of wine sales happen online. To make things worse, this channel is deemed illegal by some officials, resulting in administrative hassle for Internet wine shops. Nonetheless, a few are successful, including Winezja, Wina.pl, and Marek Kondrat, a famous actor-turned-wine merchant who, with a state-of-the-art website and a chain of retail franchises, has become an important player in the €10.00-shelf-price category.  
Sommeliers
Restaurants are the one sales channel discounters cannot cannibalise. This chunk of the market can be described as nascent (4% of total sales volume) but buoyant. At the moment, Poland has only one Michelin star and perhaps 30 fine dining locales. Few restaurants can afford a proper sommelier and fewer yet have the clientele to justify it, but young professionals such as Paweł Demianiuk, Piotr Woyde at Brasserie Warszawska, or Paweł Białęcki at Atelier Amaro have created good medium-sized lists and match them with flair with Poland’s innovative modern cooking. New trends are also embraced: Kamil Wojtasiak at Warsaw’s Butchery & Wine started serving Barolo and Gravner’s orange Ribolla by the glass two years ago; now he has upped his game with a Coravin, offering Bruno Giacosa’s 2011 Barbaresco at €25.00 a pour. Yet tellingly, the best opportunities for Polish sommeliers lie a Ryanair flight away in the UK: Piotr Pietras has become Polish Sommelier Champion in 2015 after a year at Gordon Ramsay’s Maze, and Adam Pawłowski the nation’s first Master Sommelier, without ever having worked on the floor in Poland.
Communicators
Anti-alcohol law limits the way wine can be mentioned in the general media. The only printed magazine, WINO, has a niche following amongst the trade and hardened aficionados, and prints less than 5,000 copies bi-monthly. Its authors, editor-in-chief Tomasz Prange-Barczyński, Ewa Wieleżyńska, Andrzej Daszkiewicz, and veteran Polish wine writer Marek Bieńczyk, remain Poland’s most authoritative tasters, but most wine talk (and sales leads) nowadays happens online, (including on my own Winicjatywa.pl (link is external) website, the most widely read of about 30 active wine blogs) — but none that has conquered a broader public yet. In that context, those who manage to get published in the general press have inadvertently created a new wine-reading public. This includes Robert Szulc, an amateur blogger who also reviews supermarket wines for Poland’s largest daily tabloid, Fakt (300,000 copies), and Robert Mazurek, a popular political columnist with a passion for wine, a column in the weekly wSieci, and Poland’s top wine-related Twitter account with more than 3,700 followers.
Wineries
Poland also has a small but booming wine industry, with over 700 ha of vineyards. Erratic climate and prohibitive red tape present major obstacles, but the growth, both in quantity and quality, has been impressive. Leading projects such as Dom Bliskowice, near tourist hub Kazimierz; Srebrna Góra in a historical monastery in Kracow; and Winnica Turnau, a famous singer’s estate next to the Baltic city of Szczecin, are long-term, well-managed operations with a proactive approach to the urban market. Ranging from off-dry hybrid-based whites to structured oaky Pinot Noirs, their wines are expensive but popular, and set an example for many other producers.
Wine foe
The single person who has most to say about alcohol in Poland appears to be Krzysztof Brzózka, director of PARPA, the alcohol “problem prevention” state agency. Although not particularly riddled by alcohol-related issues by European standards, the country already has restrictive legislation, including a Byzantine excise and imports red tape regime, but Mr. Brzózka desires (encouraged by the WHO) to further reduce the availability of alcohol. A right-wing majority expected to emerge from October elections might lend an ear to that. A Polish Wine Trade Association has even been established to counter the moves, so expect long-term legislative arm-wrestling to follow.   

Orígin information:  Meininger's

jueves, 18 de febrero de 2016

OPINIÓ: De peus al decantador. Empar Moliner

OPINIÓ

De peus al decantador

He trepitjat zones, com Toro, on mamen (en tots els sentits) el vi des de petits. Fa enveja. A les ferreteries hi veus aparells per fer-se el vi a casa. A qualsevol bar lleig amb taulell d’acer inoxidable hi ha copes Riedel...




Veig cada dia al celler del meu amic com el nom d’una ampolla de vi pot ser definitiu perquè algú la compri. A banda del preu, esclar. Un nom simpàtic i desenfadat fa pensar al consumidor encara poc entrenat que allò deu estar fet amb ganes. Que deu ser “divertit”. No passa a tot arreu, això, esclar. Les etiquetes del vi de Bordeus, per exemple, són clàssiques i si deixessin de ser clàssiques cap de nosaltres (i cap bordelès) ho entendria. Les etiquetes de Bordeus “han” de ser així. Amb aquest toc antigot. 
He trepitjat zones, com Toro, on mamen (en tots els sentits) el vi des de petits. Fa enveja. A les ferreteries hi veus aparells per fer-se el vi a casa. A qualsevol bar lleig amb taulell d’acer inoxidable hi ha copes Riedel (no es concep cap altra idea) i als prestatges, ampolles buides i memorables de la zona. Allà, esclar, tampoc no cal innovar amb els noms de les ampolles de vi, ni amb les etiquetes. Tothom “vol” aquell vi, perquè -com el menjar de casa teva- és el que coneixen i el que els agrada. I és ben de veritat que estimen aquell vi i no cap altre. No els vinguis amb un borgonya o amb algun sirà australià, que no l’entendran. Em direu que simplifico i tindreu raó. Estic parlant, però, de la població “normal”, no pas dels experts o dels que s’hi dediquen. La població “normal” (els avis i els joves, les senyores pones i els senyors pepets) sap el que li agrada, que és allò. Als llocs on això no passa, com a Catalunya, toca buscar-se la vida per fer que els consumidors autòctons vulguin vi autòcton.
Que sigui bo i ben fet no serveix de gaire, perquè hi ha qui té prejudicis. S’ha de distingir el producte d’alguna manera: amb un nom curiós i una etiqueta boja. Però a més a més, jo diria que és molt important que els viticultors busquin, entre els compradors, les dones. Estic convençuda que el consum de vi català per part de consumidors catalans passa per ensenyar el producte a les dones. 

Tinc amigues que no hi entenen de vi, però, en canvi, el que tenen és molt ganes d’entendre-hi. I tenen una cosa molt important. Un gran nas. Em sorprenc sempre quan faig ensumar copes a dones que no estan ficades en aquest món, perquè noten olors encertadíssims. Deu ser que quan has estat embarassada el teu cos -me’n recordo molt bé- detecta qualsevol olor i l’amplifica.
“I de què serveix tenir un gran nas? ”em direu. Doncs de molt. L’experiència em diu que quan a algú li has deixat ensumar una copa i en aquesta copa hi ha reconegut la clara punxada d’acupuntura d’una aroma, s’ha rendit i s’ha emocionat. I llavors, té ganes de continuar. 

Si jo manés, dedicaria un pressupost a fer tastos per a dones, com les reunions de tuper ware. Faria classes senzilles però rigoroses, perquè de vegades, als cursos de tast et fa tanta por fer el ridícul que no dius res per por de ficar-te de peus al decantador. Recordo el meu primer curs de tast. El professor deia: “Veieu que aquest vi és més vell?”, i nosaltres, pobres, no vèiem res. “Noteu gust de regalèssia?”, preguntava. I nosaltres no la notàvem. Per notar gust de regalèssia has de tenir molt present el gust de la regalèssia. Si un botiguer munta un curs de tast per a les clientes, tindrà clientes fidels. N’estic convençuda. 
Tot sovint deixo que la meva filla, de vuit anys, ensumi les copes de la taula amb els ulls tancats. Quin és el blanc i quin és el negre? M’ho pot dir. De què sents olor? Primer deia “de vi”. Ara diu moltes coses. Li deixo mullar els llavis per les festes. El vi és aliment. Espero que quan serà gran i vagi als restaurants, quan el cambrer pregunti qui tastarà, ella digui: “Jo”.

Orígen informació: Cupatges.cat